Le Vostre Esperienze

Inauguriamo questa sezione con il racconto di Lorenzo Russo, specializzando MEU di Milano Statale, in trasferta in Sierra Leone.


POTO POTO POTO!

Posted by Lollo Russo Posted in Uncategorized

Ovvero che cosa ho imparato nel mio primo mese in Sierra Leone

Ebbene, è passato ormai un mese dal mio arrivo in questa terra lontana. Mi ero ripromesso di mandare aggiornamenti settimanali ad amici e parenti, ma come mio solito non sono riuscito a mantenere questo impegno purtroppo. Questa volta però non è stata una questione di pigrizia o mancanza di forza dei volontà. Tante volte in queste ultime settimane mi sono seduto di fronte a questa pagina bianca e ho provato a mettere in parole ciò che stavo vivendo, ciò che sto ancora vivendo. È evidente che io non ci sia riuscito.

Parlando di questa mia difficoltà qualcuno mi ha detto che forse quando ci si trova in un posto così tanto diverso da casa, così inaspettato, a volte sembra che le parole che conosciamo non possano esprimere appieno ciò che stiamo vivendo, come se servisse un vocabolario nuovo. Trovo che questa immagine sia allo stesso tempo confortante e spaventosa. Ci ho messo un po’ (circa un mese in effetti) ad iniziare a sentirmi a mio agio in questo paese, in mezzo a questa gente così diversa da me e mi rendo conto che ho ancora tanta strada da fare, tante parole di cui devo imparare nuovamente il significato. Però forse oggi sono in grado di condividere qualche pezzetto di questo posto con chi avrà tempo e sopratutto voglia di leggere questi miei vaneggiamenti.

Sappiate subito che il mio non sarà un racconto organizzato e che non alcuna velleità né di spiegarvi come funziona un paese complesso come quello in cui mi trovo né di poter anche solo comprendere una minima parte di quella che è la cultura delle persone che lo abitano. Quello che vorrei fare qui è regalarvi delle immagini, piccoli frammenti che attraverso i miei occhi, le mie orecchie e le mie mani ho raccolto in queste settimane e che stanno pian piano andando a formare un mosaico immenso che rappresenta questo luogo nella mia testa.

Per parlare della Sierra Leone non si può che cominciare dai bambini, dai ragazzi, dai giovani. “Ti piace vincere facile – penserete voi – punti subito sul bambino povero per fare colpo”. In parte. Ma da dove dovrei partire a raccontare un paese in cui il 70% della popolazione ha meno di 16 anni se non proprio da loro? È una talmente assurdo, per chi viene da un paese come il nostro, essere costantemente circondato da bambini, ragazzini, giovani adulti che non può non essere la prima cosa a rimanere impressa. Gli sguardi dei bambini, affamati di una fame sia vera che metaforica. Occhi che chiedono, chiedono sempre, che sia qualcosa da mangiare, qualche soldo o anche solo un sorriso o un “fistbump”. Ti rincorrono ovunque, ti tempestano di domande, ti chiedono perché sei bianco, perché hai la barba, perché hai i capelli lunghi, ti chiedono di essere loro amico e, quasi sempre, ti chiedono di portarli via con te una volta che te ne andrai. Ogni volta che mi sento fare questa richiesta una piccola parte di me rimane lì con loro, perché so che non potrò mai accontentarli. Sopratutto sento che questa richiesta non dovrebbe esistere, mi dico che i loro sogni non dovrebbero essere tutti in un paese lontano, “migliore”, “ricco”. Ma purtroppo non può che essere che così, i loro sogni sono stati tutti rubati da qualcuno con la pelle come la mia, da qualcuno proprio come me, magari senza la barba e i capelli lunghi. E trovo ci sia una sorta di ironia crudele nel fatto che chiedano proprio a me, che sono l’emblema di chi gli ha rubato tutto, di regalargli tutto ciò che quelli come me (almeno in gran parte) gli hanno portato via.

Dovete sapere che girare in macchina in questo paese mi fa spesso sentire come la regina d’Inghilterra. Per arrivare nei villaggi dove lavoro ogni giorno devo fare spesso lunghi tragitti in macchina, spesso su strade sterrate e disagiate. Dovunque io vada passo la maggior parte del tragitto ad elargire saluti con la mano dall’alto del mio pick-up rombante. E tutti intorno a salutare, a correre dietro alla mia Toyota grigia all’urlo di “POTO! POTO! POTO!”. A questo punto bisogna spiegare cosa diavolo voglia dire POTO. Dovete sapere che i primi a colonizzare la Sierra Leone sono stati i portoghesi – non so bene quando e non so bene come, ma ai fini del nostro racconto non è davvero importante – e da allora tutti i bianchi sono considerati POrTOghesi. Inizialmente trovavo la cosa abbastanza fastidiosa e di cattivo gusto, anche un po’ razzista, ma poi ho pensato al nostro uso delle parole “MAROCCHINO” o “FILIPPINO” e ho deciso di accettare di buon grado questo appellativo. Che poi a ben vedere forse un po’ di razzismo al contrario ce lo meritiamo pure, noi.

Purtroppo un’altra delle questioni con cui mi sono dovuto scontrare lavorando qui è lo scarsissimo valore che viene dato alla vita. Ero perfettamente consapevole che sarebbe stato così già prima della partenza, ma temo che nulla possa preparare davvero a questa esperienza. Inevitabilmente la reazione spontanea che emerge in me è la rabbia, diretta contro chi nella mia concezione del mondo dovrebbe fare di tutto per proteggere la vita (i medici, le infermiere, i genitori, le mogli, i mariti). Rabbia che però si infrange contro un muro fatto in egual parte di assenza di risorse e di indifferenza. Che poi a guardarla bene non è un’indifferenza dettata dal disinteresse, men che meno dalla cattiveria. Sfortunatamente è molto peggio di così, è un indifferenza che è figlia dell’abitudine e temo che la mia rabbia e la mia frustrazione dovrò imparare a tenerle con me, come cani da guardia a proteggere quello in cui comunque continuo a credere, anche se forse è solo uno stupido ideale di un POTO che non capisce ancora come funzionano le cose in questo lato del mondo.


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